The Game Unplugged

The Game Unplugged

A maggio del 2019 è uscito The Game Unplugged (Einaudi), un volume in cui dodici “Cannibali digitali” raccontano cosa significa crescere e vivere, lavorare e desiderare, sognare e conoscere all’epoca di internet. Quello che ne viene fuori è un grosso “Voi siete qui” in quella mappa confusa che è il presente.  Il mio racconto è un viaggio personale in questa nostra Età degli Archivi. Dentro ci sono Walter Benjamin e il C64, la nostalgia e il capitalismo delle piattaforme, Proust e, special guest, Alba Guglieri. Perché il presente è importante, ma quello che conta è il futuro.

Su «IL» del «Sole 24 Ore» si può leggere un estratto del mio essay.

Infanzia digitale intorno al 1984

Il 3 dicembre 2018 la Sony ha messo in commercio la PlayStation Classic. Si tratta di una riproduzione in miniatura della prima PlayStation, la console per videogiochi lanciata sul mercato esattamente 24 anni prima, il 3 dicembre 1994. Grande un quarto dell’originale, questa versione è poco più che un gadget: non ha il lettore Cd-Rom in cui inserire i giochi (che del resto non sono più disponibili da molti anni), ma in memoria ha caricati una ventina di titoli storici, da Metal Gear Solid Final Fantasy VII, senza possibilità di aggiungerne altri. È chiaro a chi si sta rivolgendo Sony: ai videogiocatori ormai adulti che vogliono rivivere le emozioni di quando, quasi un quarto di secolo prima, hanno messo le mani su una macchina rivoluzionaria come la prima PlayStation, vendendogli a caro prezzo (99 euro il giorno del lancio) uno scatolotto di plastica grigia con dentro alcuni capolavori ma anche tante seconde scelte (c’è qualcuno che vuole davvero rigiocare a Syphon Filter?), esteticamente pure un po’ pacchiano.

È una bieca operazione commerciale, penso leggendo la notizia del lancio: non mi farò fregare con così poco.

Il 4 dicembre 2018 ho comprato la mia Play­Station Classic.

Memorie di un flânerd

Eppure, per quanto abbia follemente amato la PlayStation originale (e tutte le sue iterazioni successive: l’attuale generazione è la quarta), non è certo la macchina a cui sono legati i miei ricordi più intensi. Anzi, nel 1994, quando cominciai a giocare con «la Play», avevo diciott’anni e già una discreta carriera di videogiocatore alle spalle. Una carriera il cui inizio potrei far risalire a dieci anni prima, quando, nel 1984, mio padre portò a casa un Commodore 64.

Non so che progetti avesse mio padre per il Commodore, fatto sta che, appena capii come si facevano partire i giochi, me ne appropriai. Se penso adesso al Commodore, il primo ricordo che emerge è uditivo: i programmi erano memorizzati su cassette – del tutto simili a quelle audio – lette da un registratore collegato al computer. Nel processo di trasmissione dalla cassetta al computer, si produceva un fischio distonico, quasi un rumore bianco, tanto fastidioso quanto ipnotico, che accompagnava il lentissimo caricamento del programma. Spesso, dopo decine di minuti di questo fischio, qualcosa andava storto, il gioco non si caricava e si doveva ricominciare tutto daccapo.

Le ore passavano cosí.

Perché, sì, la «noia è un caldo panno grigio, – scrive Benjamin. Ma poi aggiunge: – rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori».

È difficile da credere adesso, quando la minima esitazione di una pagina web nel caricarsi ci provoca una frustrazione quasi insopportabile: iniziare anche il più primitivo dei videogiochi richiedeva tempo, anzi imponeva un tempo suo proprio, sospeso, un vuoto da riempire. La noia, quel «caldo panno grigio» come la definiva Walter Benjamin, è qualcosa che raramente associamo al gioco, e ancora meno al digitale, alla sua velocità, all’idea di immediatezza che si porta dietro. Eppure quanti momenti della nostra vita a contatto con le macchine sono, ancora oggi, profondamente noiosi, privi di senso, senza alcun fine se non la loro stessa esistenza? Quanti moduli dobbiamo riempire ogni giorno, quante autorizzazioni «flaggare», quanto tempo perdiamo a cercare la giusta emoji, il giusto filtro su Instagram, a scrollare tra foto di pranzi di sconosciuti, ad attendere il riavvio del computer, a disabilitare banner, a installare app, ad autorizzare aggiornamenti… Giocare, allora, per me è stato un’educazione alla noia. Durante quei lunghi pomeriggi passati ad aspettare che si caricasse il gioco prendevo confidenza con quella disciplina del tempo che, nell’infanzia, precede la scoperta. Perché, sì, la «noia è un caldo panno grigio, – scrive Benjamin. Ma poi aggiunge: – rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori».

Ecco, gli smaglianti colori.

La PlayStation Classic non è che uno dei tanti prodotti culturali che negli ultimi tempi hanno elaborato, citato, rimescolato gli «smaglianti colori» dei decenni passati. Stranger Things, ad esempio, è una serie Netflix ambientata nel 1984 e dintorni, farcita di omaggi e citazioni da film horror e di fantascienza di quel periodo (da E.T.ai Goonies, da John Carpenter a Steven Spielberg, fino ai caratteri con cui venivano disegnate le copertine dei libri di Stephen King o alla locandina della serie che richiama lo stile di Drew Struzan per quelle di Rambo Indiana Jones); in un curioso caso di «metanostalgia», Spielberg omaggia (anche) se stesso in Ready Player One, film del 2018 tratto dal romanzo di Ernest Cline e ambientato in un mondo virtuale dove rivivono le icone nerd di quarant’anni prima; l’estetica vaporwave, nata in ambito musicale come ripresa, un po’ ironica e un po’ no, di suoni e oggetti anni Ottanta e Novanta, ha contagiato la musica commerciale con le sue scritte al neon e i colori fluo rosa e azzurri (prima di essere egemonizzata dall’alt-right, i movimenti della «nuova destra» pro Trump attivi soprattutto in Rete…); per non parlare dell’ossessione del cinema hollywoodiano per i sequel e i reboot di franchise passati, da Star Trek Ghostbusters, da Star Wars agli infiniti tentativi di riportare in auge la serie di Terminator.

Terminator, quello originale, è un film del 1984 che, guarda caso, raccontava di viaggi nel tempo e intelligenze artificiali.

Il punto è che nessun’altra epoca è stata ossessionata dal passato recente come la nostra. Certo, ogni epoca ha cercato di fondare la propria identità nel confronto col passato: ma era un passato lontano nel tempo, distante secoli quando non millenni, e in quella distanza c’era lo «spazio» per un’inevitabile reinterpretazione. Quella settecentesca non era una riproduzione fedele dell’arte greco-romana, ma una sua appropriazione: era appunto un neoclassico; cosí come le chiese neogotiche di fine Ottocento sono una rielaborazione creativa di alcuni elementi delle cattedrali gotiche. La caratteristica di ciò che il critico musicale Simon Reynolds ha definito «retromania», invece, è che il passato rimpianto è il passato recente, un passato cosí vicino da essere stato vissuto direttamente da chi ora si strugge per la sua fine.

Questo spiega anche il rapporto particolare tra la retromania e la cultura pop. Il pop non solo è il veicolo della nostalgia retrò (ad esempio con show o musiche di oggi che riprendono elementi o forme del passato recente) ma ne è anche l’oggetto: a essere soffuse di nostalgia – e quindi degne di essere ripescate – sono proprio le produzioni della cultura popolare di quegli anni, film di genere, telefilm, videogiochi. Come scrive Reynolds, è «il momento che diventa monumento»: l’effimero, il passeggero, il noioso, che viene sottratto all’oblio e messo su un piedistallo.

Non è un caso, allora, che il decennio più saccheggiato sia quello degli Ottanta del Novecento. Non solo perché erano ragazzini gli adulti di oggi, i consumatori ad alto potere d’acquisto a cui queste merci si rivolgono. Ma anche perché gli Ottanta sono stati gli anni, gli unici anni, in cui il digitale già esisteva – c’erano gli effetti speciali computerizzati al cinema, i cervelli elettronici iniziavano a essere usati diffusamente nella finanza o nei trasporti, i computer iniziavano a essere «personal» e a entrare nelle case: come il Commodore 64 appunto – ma era un digitale, come dire, «gestibile», controllabile, conoscibile. O, meglio, cosí ci appare oggi. La retromania, allora, vende il sogno di un digitale «a misura d’uomo», la nostalgia di un tempo in cui era l’umano a dominare la macchina. Come un velo di purezza e semplicità che cela, e rende sopportabile, una realtà in cui la tecnologia appare sempre piú autonoma, impenetrabile nelle intenzioni, inconoscibile nei funzionamenti.

Minaccioso e incombente come la natura per gli artisti romantici: il digitale è il sublime contemporaneo.

Chiariamoci. La nostalgia è sempre esistita… almeno dal 1688, quando il medico Johannes Hofer conia il termine «nostalgia» per dare un nome alla malattia dei soldati svizzeri arruolati negli eserciti stranieri. Da malattia, nei secoli successivi ha iniziato a indicare un sentimento: il rimpianto per un passato ideale, un tempo perduto in cui la totalità infranta della vita moderna, la sua alienazione, era ricomposta, il desiderio di un’origine in cui la vita era ancora pura, autentica, «ingenua», non mediata.

La differenza della retromania con la generica nostalgia, ciò che la rende la cifra culturale dei nostri anni, è che la retromania è resa possibile dagli archivi digitali. Senza di essi non potrebbe esistere. Per la prima volta nella storia abbiamo accesso all’archivio digitalizzato del passato prossimo: su Spotify posso ascoltare qualsiasi canzone in qualsiasi momento, su YouTube ogni pubblicità, ogni jingle, ogni sigla di cartone della mia infanzia, su Netflix, Sky Now, Mubi, ogni serie, ogni film o quasi, tutto il porno su YouPorn. Non c’è più selezione della memoria, filtro del canone e delle egemonie culturali, non ci sono piú le élite che controllano l’accesso all’archivio, decidono cosa conservare e cosa invece non è degno (secondo l’ideologia delle stesse élite…): evviva.

Adesso proviamo a uscire dalla bolla – almeno da quella di chi possiede il privilegio, economico e sociale, di muoversi in autonomia all’interno degli archivi.

È come se la massa degli archivi del passato recente – di tutte le mode, le musiche, i film, gli stili – e la loro disponibilità immediata, «così com’erano», senza quella trasfigurazione visionaria che il tempo spesso compie, esercitasse una sorta di attrazione gravitazionale a cui diventa difficile sottrarsi, trasformandoci tutti in piccoli archivisti, archeologi del passato prossimo. Siamo schiacciati da questa massa di possibilità, in cui viene meno il principio di selezione. È mutata la temporalità con cui facciamo esperienza di un oggetto culturale.

Anche prima c’era la totalità delle informazioni che sapevo non avrei mai potuto maneggiare (tutti i libri che non avrei mai potuto leggere, con buona pace di Mallarmé), ma era rinchiusa, per così dire, nelle biblioteche, negli archivi analogici: era lontana da me. Penetrarla richiedeva tempo: consultare cataloghi, ordinare libri, abbonarsi a riviste. Oggi è qui, nella mia tasca, che preme ogni secondo per sfondare la sottile parete del touch screen. I consumi culturali hanno smesso di essere un bene di cui faccio esperienza in un tempo preciso, isolato dagli altri, ma sono diventati più simili a un servizio che mi viene erogato, un flusso in cui sono perennemente immerso.

Com’è possibile che la creazione e l’apertura degli archivi digitali, da grande, rivoluzionario gesto emancipatorio, stia diventando qualcosa di asfissiante, tale da minare l’immaginazione stessa del futuro trasformandoci tutti in archeologi del passato prossimo, in archivisti di noi stessi?

Jacques Derrida lo chiamava «mal d’archivio»: l’ombra opprimente di un archivio infinito, senza memoria, cioè senza possibilità di oblio, in cui tutto è sempre a portata di mano, il passato, il presente, il vero, il falso, l’ironico, il serio, il cialtrone, il futile, l’importante, la superficie e la profondità, l’autentico e l’artefatto, il popolare e l’elitario. Ma se ogni stile è sempre disponibile, sempre presente, come faccio a selezionare il mio, di stile, senza essere schiacciato dalla scelta? Nel momento in cui sono allo stesso tempo esposto sia a una fortissima pressione sociale a essere «unico», a «essere me stesso», sia alle vite degli altri che mi vengono presentate in quegli enormi archivi di identità che sono i social network, l’unico esito sarà l’esplosione del conflitto mimetico generalizzato, il risentimento di tutti contro tutti.

Continua…

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