Infanzia sanremese intorno al millenovecentottanta

Illustrazione di Anna Deflorian

Qualche anno fa la rivista «The Towner» mi chiese un racconto “psicogeografico” sulla mia città, Sanremo. Ora che la rivista non c’è più, ripubblico qui il testo.


Me li ritrovo davanti all’uscita del cinema. Un muro di persone che guardano verso di me, ma non me. Non capisco chi siano o cosa stiano facendo. È da un po’ che manco da casa.

Sono dei turisti, mi sembrano russi, negli ultimi anni sono aumentati tantissimo – fuori dai ristoranti, quelli più alla buona almeno, hanno iniziato a comparire anche menu in cirillico. C’è pure una guida che dà le spalle all’Ariston e ogni tanto gira la testa per indicare qualcosa. Scattano delle foto.

Mi torna in mente quella scena di Rumore bianco, quella del fienile più fotografato d’America. Cosa c’è da fotografare? Cosa state guardando?

Il fatto è che, per chi è nato a Sanremo, l’Ariston è un cinema come un altro. È vero, è il più grande della città, fa anche da teatro (cose tipo: Pezzi da 90 di Max Giusti, o Quei due con Massimo Dapporto e un intenso Tullio Solenghi), ma resta quel cinema in cui a tredici anni andavi a vedere Indiana Jones e lultima crociata con Roberto e Fulvio. Se la televisione ingrassa le persone, di certo ingrossa i cinema di provincia: quello che sullo schermo appare come un locale enorme, lussuoso, con un palco profondo, in realtà è un normale cinema in cui marmi e infissi di lamiera si alternano senza imbarazzo, e quando non c’è la scenografia del Festival – che tracima a occupare anche le prime file – il palco è stretto e spoglio, le poltrone di quel velluto rosso che ti sembra sempre un po’ polveroso anche quando è stato appena pulito. Il marmo verdastro e l’alluminio dorato sono quelli di una città che stava vivendo il boom edilizio delle seconde case, il turismo di massa e l’immigrazione interna, e allo stesso tempo provava a tenere in vita l’eleganza blasée di quando era meta dell’aristocrazia inglese, russa e tedesca, e Sanremo era la logica prosecuzione della Costa Azzurra.

Insomma, tutto rimanda agli anni Sessanta, quando l’Ariston è stato inaugurato: diventerà la sede del Festival della Canzone Italiana solo dal 1977 (vincono i Matia Bazar con Ma perché?).

Un amico di Milano che lavora in Rai mi ha chiesto se ho voglia di andare a vedere la scenografia del Festival la domenica prima della messa in onda, tanto più che quel weekend sono in città per andare a trovare i miei.

Gli faccio uno squillo quando sono in via Roma, dove c’è l’entrata posteriore, quella degli artisti, così che mi venga a prendere. È lì che si radunano i cacciatori di autografi, i curiosi, quelli che vogliono vedere i cantanti e i superospiti. Negli ultimi anni c’è sempre meno gente assiepata fuori, un diradarsi che immalinconisce. «Non siamo qui per catturare un’immagine. Siamo qui per mantenerne una», dice uno dei personaggi di DeLillo davanti al fienile più fotografato d’America.

Quando esco dall’Ariston, sbuco dall’entrata principale, quella in via Matteotti, quella dove fanno i collegamenti del Tg1 e dove ci sono appunto i turisti che fotografano l’insegna.

La visita mi ha messo fame. Poco lontano da lì, all’imbocco di via Palazzo, c’è un piccolo locale, la Tavernetta, rimasto intatto dai tempi in cui ci andavamo dopo la scuola, e già allora sembrava un residuato (avrei detto vintage se avessi conosciuto la parola), una tavola calda, stretta e lunga come se ne vedono tante in Liguria, e che fa la migliore sardenaira della città, che è come dire del mondo dato che è una specialità sanremasca: una specie di focaccia condita con sugo di pomodoro, acciughe, aglio e olive taggiasche. Quest’altra invece non so se è davvero una tradizione locale o solo lessico famigliare: insieme alla sardenaira è d’obbligo un bicchiere di spuma – un chinotto chiaro, anche questo poco conosciuto o comunque passato di moda lontano dalla Riviera.

O forse è passata di moda anche qui, forse sono solo io che sono rimasto fermo al passato, fermo alla mia infanzia sanremese intorno al millenovecentottanta.

Torno in via Matteotti. Da quando è diventata pedonale nel 2008 (vincitori Giò Di Tonno e Lola Ponce con Colpo di fulmine) in mezzo alla strada hanno seminato delle placche d’ottone col nome dei vincitori del Festival. Un hall of fame nazionale e popolare con Albano e i Jalisse, Anna Oxa e Modugno. Da Nilla Pizzi ai Volo. Se ci sono anche questi ultimi, sinceramente, non ho la forza di controllarlo: non ho voglia di arrivare in fondo. Mi fermo davanti a un altro capannello di turisti che si stanno facendo dei selfie accanto a una statua. La statua di Mike Bongiorno. È a grandezza naturale (credo, non l’ho mai visto dal vivo: non doveva essere molto alto però), in bronzo, una mano che stringe una cartellina col copione, c’è scritto ALLEGRIA! tutto maiuscolo, l’altra sollevata in un gesto di saluto. A dire il vero assomiglia più a Han Solo dentro al blocco di carbonite: il viso cristallizato in un grido silenzioso e disperato. Sembra chiedere solo di essere liberato, di essere finalmente lasciato andare, di sciogliere le catene che lo tengono ancorato lì, e quell’allegria ha la perentorietà di un fine pena mai.  

Saluto Mike – «Non posso aiutarti amico» – e lo supero percorrendo via Escoffier, al termine della quale c’è un piccolo passaggio che porta in via Palazzo e da lì salgo verso la città vecchia. Devo lasciarmi tutto questo alle spalle, i russi, Mike, l’Ariston. Forse c’è solo troppa gente per strada, troppe persone che mettono alla prova la mia misantropia.

Da quando me ne sono andato da casa per fare l’università a Torino, le amicizie qui si sono diradate. Anche con Roberto e Fulvio non ci sentiamo più come prima. Le amicizie sono fatte per finire, mi piaceva pensare intorno ai vent’anni. Non so se ero solo stupido o c’era anche un presentire l’inevitabile. Fulvio è andato a studiare – e poi lavorare – a Genova, mentre Roberto, del nostro gruppo, è l’unico a essere rimasto qui: ha frequentato qualche anno giurisprudenza a Imperia e poi ha abbandonato, senza un motivo, o almeno senza dirlo a noi. Prima provavo a chiamarlo per berci qualcosa insieme quando tornavo in città: avrà accettato un paio di volte, poi tirava fuori delle scuse, degli impegni, alla fine ho smesso di provarci, e del resto io tornavo sempre meno.

Così adesso, quando vengo qui, più che altro resto a casa a leggere o faccio lunghe passeggiate solitarie.

I giri sono sempre abbastanza gli stessi: Sanremo è una città tutto sommato piccola, che non invoglia alle divagazioni eccessive. Per la sua conformazione, circondata com’è dalle montagne che la proteggono e ne mitigano il clima (a venti minuti d’auto dal mare si è già a milleduecento metri d’altezza), adagiata alla confluenza di una serie di valli, è fatta tutta di salite, terrazze, scalinate sempre più ripide. Non ti regala niente, come sempre qui, tanto meno si lascia scoprire da visitatori distratti o supponenti. È chiusa, come una pigna.

È così che chiamano la città vecchia, la Pigna: un pugno chiuso di case addossate l’una all’altra, come se fossero cadute dal cielo e spinte l’una contro l’altra da un bambino capriccioso. «Grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e crespi d’erba», la racconta Calvino. I caruggi sembrano corridoi che attraversano le abitazioni, pare di scivolare dentro spazi privati. Sono bui, stretti, a volte meno delle spalle di un uomo, tanto che in certi casi bisogna percorrerli un po’ di sghimbescio. Le case sono tenute in piedi, letteralmente, da archi che ne impediscono il crollo l’una sull’altra. Una casbah, davvero bellissima. Mia nonna era nata qui, in piazzetta dei Dolori. La Pigna ha questa conformazione perché, nel Medioevo, ci si doveva difendere dalle invasioni saracene. Salendo i caruggi, mentre incrocio gli sguardi degli immigrati che negli ultimi anni l’hanno ripopolata (vedi, alla fine i Saraceni sono arrivati comunque), mi rendo conto di una cosa a cui non avevo mai fatto caso. Sanremo è una città tranquilla, molto borghese se si vuole, abituata a una certa ricchezza, ma non puoi nasconderti da quello che sei, neanche restando all’ombra di questi vicoli: comunque sei un porto di mare. Comunque c’è quella minacciosità sottopelle, quella tensione segreta e eccitante che hanno solo le città di mare e di traffici, che hanno Genova, Napoli, Marsiglia, Nizza.

Attraversando la Pigna da sud a nord arrivo in cima, ho un po’ il fiatone. C’è «un giardino pubblico ben ordinato e un po’ triste – è sempre Calvino ne La strada di San Giovanni – che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d’un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa». Da bambino mia nonna mi portava a giocare qui: c’è questa specie di fontana, costruita come una piccola grotta, in cui entravamo eccitati come degli esploratori. Era un’avventura, ti potevi immaginare nella bat-caverna, o alla ricerca di qualche tesoro, o assecondare semplicemente quel desiderio di rifugio, di una cuccia, che accomuna i bambini ai gatti. Col tempo però smettemmo di andarci, capitava sempre più spesso di trovarci delle siringhe, erano gli anni Ottanta.

Ancora qualche metro e si arriva alla Madonna del Costa, appunto. La vista vale la scarpinata: si domina tutto il golfo, da Capo Verde, a est, a Capo Nero, a ovest. Lì capisco una cosa. Nel 1971 Calvino scrisse uno dei pezzi più belli che abbia letto. È tanto una dichiarazione di poetica quanto un trattato di geografia sentimentale, un’autobiografia attraverso i beudi e i sentieri, e un programma su come guardare le cose. Si intitola Dallopaco e inizia così: «Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo, avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone, affacciato a una balaustra, e vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottostanti, d’un teatro il cui proscenio s’apre sul vuoto, sulla striscia di mare alta contro il cielo attraversato dai venti e dalle nuvole».

E così anche io, se oggi mi domandassi che forma ha il mondo, se lo chiedessi «al me stesso che abita dentro di me», risponderei che ha la forma di tanti balconi, che è un lungo davanzale sul mare, una striscia di terra in cui ci si può muovere solo a destra e sinistra, e in alto e in basso. E io so, ovunque sia in quel momento, magari nel chiuso di una stanza a migliaia di chilometri, io so che ho sempre le montagne alle spalle, a destra il ponente, a sinistra il levante, e di fronte il mare. (A volte saprei anche dire l’ora e il periodo dell’anno in cui il sole è a una certa altezza, basso, sull’orizzonte, vicino al tramonto, un tardo pomeriggio di primavera direi, e colora ciò che ho di fronte di un’esatta punta di azzurro, appena riverberata nel bianco e nel rosa e nel giallo biscotto della città che frana eternamente sulla riva senza mai muoversi davvero).

Da che parte vado? Ho un attimo di esitazione. Decido di passare sotto la vecchia casa in cui abbiamo vissuto fino a metà degli anni Ottanta, nel quartiere dove sono cresciuto. Percorrendo il crinale della collina, verso ovest, si supera il cottolengo, e ci si immette in via Galilei, un lungo canyon di palazzoni e case popolari, costruiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli che Calvino denuncia ne La speculazione edilizia: sono perlopiù bianchi e visti da qui, dall’alto, sembrano la schiuma porosa e tossica di uno tsunami che si è abbattuto contro le montagne e, decenni dopo, pullula di vita.

Stavamo al 591 mentre nel palazzo di fronte abitava Fulvio. Roberto stava poco distante, al fondo della salita che unisce via Galilei a via Martiri, in una palazzina con un cortiletto davanti, lontano dalla strada e circondato dall’edera, in cui ci trovavamo a giocare a calcetto.

«Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta», diceva Walter Benjamin. Ecco, io non riesco mai a perdermi davvero a Sanremo. Forse perché casa è proprio quel posto in cui è più difficile perdersi, in cui ci vuole un impegno, quando non uno studio che dura tutta una vita, per perdersi. È quel luogo in cui ci si orienta sempre, di cui si conoscono le strade, le persone, i sentimenti, così come si riconosce una stanza al buio.

Per questo, credo, alla fine è così difficile parlare della propria casa (così difficile scriverne): perché prima ti arrivano parole che non sono tue, ne sei circondato, come acqua salata che ti entra in bocca quando arrivi nel punto in cui non si tocca più. Ma poi c’è quell’attimo, un secondo, meno, in cui il tuo corpo capisce che non ha più la sabbia sotto i piedi, che adesso tocca a lui tenerti a galla. Ecco, quello il momento in cui capisci che le parole che ti hanno lasciato gli altri, che hai trovato lì, non bastano più e devi trovarne di tue. Devi iniziare a nuotare.

Intanto ho percorso tutto il crinale delle due colline che definiscono la vallata del torrente San Romolo, e arrivo in una zona chiamata, non ho mai capito perché, Polo Nord. Da lì in poi la strada prende il nome di corso Inglesi e cambia completamente. I palazzoni popolari lasciano il posto a ville nascoste nel verde, edifici eleganti con vetrate liberty, giardini ben curati e pieni di piante esotiche.

Nel 1932 la vita a Berlino è ormai insostenibile per Benjamin. Le occasioni editoriali sono sempre più rare, e le sue condizioni economiche – anche a seguito del divorzio – precarie. Ma è soprattutto l’ascesa del nazismo a rendere la città invivibile: aumentano le violenze, i raid nelle case degli ebrei o degli oppositori, l’antisemitismo diffuso. Non resta che l’esilio. Parigi, la Danimarca, qualche mese in Spagna, a Ibiza. Spera di ritrovare l’isola incontaminata che ha conosciuto in un viaggio qualche anno prima, ma il turismo è arrivato anche lì e lo costringe ogni mattina a salire su un monte, tirare fuori dai rovi dove l’ha nascosta il giorno prima una poltrona di fortuna e lavorare all’aria aperta. Ma una visita di Franco alle autorità locali gli ricorda che l’Europa è un cane feroce che gli corre alle spalle.

Qualche anno prima l’ex moglie, Dora Sophie, ha preso in gestione una pensione a Sanremo, Villa Verde, in parte col denaro avuto dal divorzio. Verso la fine del 1934, Benjamin decide di accettare l’invito di Dora, ben consapevole di quello che significa acconsentire di tornare sotto lo stesso tetto dell’ex moglie: «Se qualcuno mi dicesse che la felicità è poter seguire, passeggiando e scrivendo, i propri pensieri in una località stupenda – e Sanremo è veramente bellissima – senza essere tormentato dalle preoccupazioni quotidiane – ebbene, cosa gli dovrei rispondere? E se un altro mi si parasse davanti per dirmi in faccia che è miserabile e vergognoso annidarsi così nelle rovine del proprio passato, lontano da tutti i compiti, dagli amici e dai mezzi di produzione – a maggior ragione di fronte a quell’uomo tacerei imbarazzato». Vi risiederà, a vari intervalli, fino al 1938.

E così arriva «nella più felice località invernale della Riviera». Ma la dolcezza del riposo, dell’isolamento, di una vita finalmente sostenibile dal punto di vista economico, si rivela un farmaco tanto tonificante quanto velenoso. Riprende a fare le sue lunghe passeggiate, ma presto fa i conti con un ambiente chiuso, arretrato, meno cosmopolita di quello che si era aspettato, almeno per lui: «Ho conosciuto ore e giorni di profonda infelicità, quali non avevo mai sperimentato in tanti anni. Non il tipo di sofferenza che si prova nei periodi felici, ma pieni di un’amarezza che si apre sul vuoto e si alimenta di inezie».

Decido di andare a vedere cosa ne è oggi di Villa Verde, magari mi calma. Per arrivarci passo accanto all’Hotel Savoy. Per anni è stato uno dei più lussuosi della città – Benjamin ci sarà passato davanti centinaia di volte. Nella stanza 219, il 27 gennaio del 1967 si uccise Luigi Tenco, sparandosi dopo che la sua canzone, Ciao amore, ciao, fu bocciata dalla giuria. Oggi l’albergo è stato trasformato in un condominio di mini appartamenti per le vacanze.

A Sanremo Benjamin è solo, va a letto subito dopo cena e passa le serate a leggere. Quell’isolamento che credeva l’avrebbe aiutato a scrivere, lo sta invece devastando. «Mi è assolutamente chiaro che il motivo determinante di questa mia situazione è la mia inimmaginabile solitudine. Isolato non solo dalla gente, ma anche dai libri e negli ultimi tempi – col peggiorare del tempo – anche dalla natura. Andare a dormire prima delle nove tutte le sere, fare ogni giorno le solite passeggiate sapendo fin dall’inizio che non si incontrerà nessuno; rimuginare ogni giorno i soliti scontati pensieri sul futuro: anche per una costituzione intimamente molto forte come ho sempre considerato la mia tutto ciò porta alla fine a una profonda crisi».

Dove c’era la pensione Villa Verde trovo un bel condominio di lusso: attraverso le grate del cancello spio le tende delle terrazze e le monovolume parcheggiate nel cortile.

Villa Verde (ex Villa Emily)

Torno indietro, scendo verso il mare. Penso a come certi posti, e la solitudine è uno di essi, possano essere dolci e velenosi. Come a volte è possibile perdersi anche rimanendo a casa, «annidandosi nelle rovine del proprio passato».

L’anno scorso, mentre ero nel pieno di un trasloco, mi chiama Fulvio, adesso fa l’architetto a Genova, e mi racconta di Roberto, che non esce più di casa da sette anni, che i suoi sono disperati ma ormai rassegnati, che dobbiamo fare qualcosa. Gli dico che sì, dobbiamo fare qualcosa, provare a parlargli, telefonargli, andare a trovarlo. Ci promettiamo di sentirci ancora, poi mi rimetto a riempire scatoloni, svuotare armadi, sistemare una casa nuova.

Salgo sulla terrazza dell’albergo Europa, accanto al Casino. Qui c’è una grossa insegna che la notte si accende e proietta la sua luce sul corso. Entrando in città dall’Aurelia (che in quel punto è diventata corso Imperatrice), il viaggiatore vede questa enorme scritta EUROPA ad accoglierlo.

Adesso la scritta la osservo da dietro, a rovescio, in questa giornata piovosa di febbraio, e attraverso le lettere dell’Europa guardo a ovest, verso la Francia, mi chiedo cosa direbbe Benjamin di questi nuovi esili, dei profughi bloccati alla frontiera di Ventimiglia da mesi, accampati sugli scogli. Delle frontiere che stanno risorgendo e del cane Europa che riprende a mordere.

Poi mi giro verso il mare, mi stringo nel cappotto e sento le prime gocce di pioggia sul viso.

Torno giù, in strada, ho un treno da prendere che parte tra poco.

Arno Gisinger, Konstellation. Walter Benjamin en Exil
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