Leggere Rovelli nella Nuova era oscura

«Il volume degli scambi della Borsa di New York varia ogni giorno tra i 2 e i 6 miliardi di transazioni, con un valore medio giornaliero (dato del 2016) di 169 miliardi di dollari. L’unico modo per gestire una tale mole di dati è affidarsi alle macchine: algoritmi e software “decision-making” le cui prestazioni migliorano di anno in anno, come fa la tecnologia quando è pungolata dalla finanza: se un trader umano può gestire intorno ai cinque scambi al giorno, i software di High-frequency trading ne gestiscono diecimila al secondo

In questo momento stanno circolando 17 milioni di container. Le supply chain, le catene logistiche che permettono alle merci di essere assemblate e distribuite, sono di una tale ramificata complessità che, come la proverbiale farfalla che scatena l’uragano, uno sciopero in un porto, il crollo di una miniera o, be’, un pangolino in un mercato cinese, possono alterare in maniera imprevista il mercato globale.

Queste e altre infinite strutture sono tenute in piedi e collegate tra loro da internet. Secondo alcune stime, nel 2025 ogni giorno verrano creati 463 milioni di terabytes, l’equivalente di 212.765.957 DVD. Ogni giorno. Internet è un sistema di piattaforme, servizi, data-center, dorsali oceaniche la cui complessità è tale da trascendere qualsiasi tentativo di comprensione del singolo individuo, ma di cui godete i frutti: ad esempio leggendo queste parole. 

Il mondo è una rete di reti dentro altre reti, una complessità ingovernabile e ingovernata, senza nessuno alla guida se non (forse) la sua stessa, inumana, logica strutturale».

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John le Carré, spia ingenua e sentimentale del cuore umano

Su «Domani» un mio profilo di John le Carré, spia ingenua e sentimentale del cuore umano. Sul cartaceo e online per gli abbonati.

«Le Carré, per tutta la carriera, ha scelto un unico soggetto e l’ha ritratto in mille pose diverse, in tutte le sfumature possibili: il tradimento. Ha elevato il tradimento a prisma attraverso cui osservare la storia del secondo Novecento, in particolare di quel lungo conflitto chiamato Guerra fredda. Ma anche come chiave d’accesso per il cuore umano: perché tutti presto o tardi tradiamo qualcuno o qualcosa, il nostro Paese, i nostri ideali, le persone che amiamo. Più spesso, poi, tradiamo noi stessi. Questa guerra chiamata vita confonde i buoni con i cattivi, spinge i primi a usare gli stessi metodi dei secondi, a specchiarsi gli uni negli errori degli altri. Pochi hanno saputo raccontarcelo come le spie stanche, deluse e malinconiche di John le Carré».

Quel non so che di cimiteriale che c’è nella nostra cultura

Come riusciamo a immaginare forme nuove di cultura, e quindi di società, come possiamo essere “dotati di senso” per più persone, esseri umani con storie e desideri che ora non sono rappresentati, come impariamo a riconoscere il nuovo quando lo incontriamo, se siamo circondati dalla costante commemorazione del passato recente (cosa diversa dalla storia)? «Tutto è recente come uno squillo di sveglia» scriveva quel geniaccio di Pasquale Panella: e in effetti il pezzo inizia con Techetechetè, «Il nuovo che fu», titolo e sottotitolo forgiati da lui. Su «Domani» (cartaceo e online qui) il mio personale «Ok, boomer».

Qualcosa su Richard Yates

Su «Domani» scrivo di Richard Yates, della sua grandezza e, sì, della sua attualità. Nella frustrazione della classe media – che è spinta a credersi unica e privilegiata e si scopre mediocre e impoverita – ci sono le radici di tante crisi di oggi. Sul cartaceo e online per gli abbonati.

«Ma perché uno scrittore come Richard Yates ci parla ancora così tanto? In fondo potremmo pensare che, al di là della qualità letteraria, alla fine Yates resti legato all’America degli anni Sessanta, a quel paesaggio antropologico di villette a schiera, mariti in abito grigio che vanno a lavorare in città e casalinghe infelici. Che insomma ci parli da e di un’epoca lontana. Non è così: nel frattempo il sogno americano è diventato il sogno occidentale, le sue speranze sono diventate anche le nostre, così come le sue disillusioni. Quello che ci racconta Yates è l’angoscia della classe media che vorrebbe essere unica, che è spinta a immaginarsi unica nei consumi e privilegiata nello stile di vita, ma poi si scopre identica al suo vicino, mediocre, impoverita. E questa paura a lungo compressa genera una risposta violenta, risentita, esplosiva.Ora, ditemi: c’è una descrizione migliore del populismo?».

Lo stesso mondo, solo un po’ diverso

Il 27 novembre è uscito l’ultimo numero di «IL», il mensile del «Sole 24 Ore». È un bel numero dedicato alle «seconde volte»: io scrivo di futuro perché in fondo, se ci pensate, il futuro lo incontriamo sempre due volte: la prima nell’immaginazione, nella fantasia, nel desiderio, la seconda nella realtà. Sarà per questo che Lacan diceva che i traumi di cui soffriamo oggi non sono avvenuti nel passato ma nel futuro? E del resto, in quest’epoca bloccata, in questo “tempo fuor di sesto” in cui la memoria si accumula e appiattisce, la figura dominante è quella del déjà-vù.

La notizia brutta è che questo è l’editore ha deciso di chiudere la testata: questo è letteralmente l’ultimo numero di «IL». Ed è un peccato perché è stato qualcosa di abbastanza unico sulla scena della stampa italiana, un magazine italiano di livello internazionale, con una grafica all’avanguardia e che ha fatto un lavoro straordinario di scouting di firme e collaboratori, soprattutto giovani, dove parlavano di argomenti, libri, idee giovani e che trovavano poco spazio sugli altri giornali. Molti degli scrittori che leggiamo in giro oggi, i nomi migliori, si sono fatti le ossa su «IL». Peccato.

La valle oscura

Come pensa la Silicon Valley? Il mondo che stiamo vivendo, la forma che da più di trent’anni ha assunto quell’iperoggetto che è il tecno-capitalismo, è qualcosa di così radicalmente inumano da essere impenetrabile alla letteratura, per non dire a una cosa così novecentesca e démodé come la critica letteraria? Su «Domani» in edicola scrivo di alcuni libri, a cominciare dal bel memoir di Anna Wiener, La valle oscura Adelphi Edizioni (un vero e proprio trattato di antropologia umana travestito da avvincente memoir, un reportage “oltre le linee nemiche” fatto da “una di noi”), passando per quelli di due comparatisti di Stanford: quello di Adrian Daub, What Tech Calls Thinking, che smonta alcuni feticci del pensiero della Valley, a cominciare da quello di “disruption”; a quello che è stato il professore di tanti “founder” di start-up, a cominciare da Peter Thiel che lo cita ogni due per tre: René Girard.

Online per gli abbonati qui.

Inizia così: «Uno tsunami si propaga per migliaia di chilometri: le sue onde si infrangono su punti lontanissimi della costa. Il digitale, internet, il game, il capitalismo delle piattaforme o comunque vogliate chiamare quello che sta succedendo, è uno tsunami che da trenta e più anni, e con violenza sempre crescente, si abbatte su ogni aspetto delle nostre vite: dalle relazioni sentimentali alla politica, dall’economia alla comunicazione, non c’è nulla che non ne sia stato toccato, che non sia cambiato, poco o tanto, da quando si è trovato il modo di digitalizzare l’informazione. Ecco, tra tutti questi c’è un particolare punto di osservazione che a me interessa più di altri: quel piccolissimo pezzo di costa chiamato letteratura. Certo, è un interesse che nasce anche da banali accidenti biografici. Quella della letteratura, del romanzo, dell’editoria, è la spiaggia in cui abito e sapere come si infrangerà qui l’onda della “disruption” è questione, se non di vita o di morte, quanto meno di affitto da pagare. Eppure credo ci sia anche un altro motivo che rende questo scorcio di costa un punto di osservazione particolarmente interessante. Il romanzo aveva il monopolio di quella particolare forma di sapere il cui oggetto è l’umano, la vita in generale e in tutti i suoi aspetti. Ma cosa fanno le piattaforme digitali e i social network se non questo: occuparsi dell’umano in ogni suo aspetto, accumulare dati sulle nostre esperienze e abitudini, costruire con i dati un duplicato della vita stessa? Trasformare l’esperienza in qualcos’altro: lo fa il romanzo, trasformandola in narrazione; ma lo fa anche il capitalismo della sorveglianza, trasformando l’esperienza in… be’, alla fine in stock option. Come funziona questa estrazione, l’ha raccontato molto bene Shoshana Zuboff nel libro Il capitalismo della sorveglianza appunto: ma quello era un saggio, raccontava la faccenda, per così dire, da fuori. Descriveva lo tsunami visto da chi sta sulla terraferma. Mancava qualcuno che lo tsunami ce lo raccontasse in prima persona, cavalcandone le onde. Adesso ce l’abbiamo, ed è anche uno “dei nostri”, uno che viene dalla nostra stessa spiaggia, quella dell’editoria e della letteratura. Abbiamo mandato un nostro uomo oltre le linee nemiche. Anzi, meglio: una donna».

Il tempo e l’acqua: un dialogo con Andri Snær Magnason

Sabato 14 novembre, all’interno delle manifestazioni di Bookcity, ho avuto il piacere e il privilegio di fare due chiacchiere con Andri Snær Magnason, autore islandese di uno dei libri più importanti di quest’anno: quel Tempo e l’acqua che mettendo insieme poesia e memoria familiare, scienza e critica letteraria, attivismo e nature writing apre a uno sguardo diverso, meno accecato, su quello che sta avvenendo su questo pianeta. L’incontro si è svolto all’interno del ciclo #terranostra, un’occasione per mettere insieme varie personalità nazionali e internazionali sul tema dell’emergenza climatica.