Non essere una macchina!

«Le Pagine gialle di internet. Sembra incredibile a raccontarlo adesso, ma a metà degli anni Novanta, se ti serviva l’indirizzo web del Louvre o di un sito dove comprare dei libri, potevi anche tirare giù dallo scaffale la tua copia – fisica! Di inchiostro e carta giallina! – delle Pagine gialle di internet e, inumidendoti il dito per sfogliarne le pagine, cercare ciò che ti serviva. Io ce le avevo! Esiste qualcosa di più teneramente ridicolo? Un adolescente di oggi potrebbe mai capire di cosa sto parlando? Probabilmente non sa nemmeno cosa sono le Pagine gialle normali… Il fatto è che a quei tempi, quando il www era nato da poco e da ancora meno iniziava a essere diffuso, internet poteva ancora sembrare una cosa “a misura d’uomo”: di qui l’idea che ci potesse essere una “curatela” umana di internet. Oggi una presunzione del genere appare assurda e naif: è internet che mappa internet, la macchina conosce e esplora se stessa attraverso gli algoritmi infaticabili dei motori di ricerca. Ma, ecco il punto, oggi è la vita stessa a essere “curata” dalla macchine: quale aspetto della nostra quotidianità non è organizzato, mediato o addirittura reso possibile da internet? La prospettiva si è totalmente ribaltata». Continua su «Domani».

L’arte malinconica di vendere i libri usati

«Ecco perché, alla fine, alcuni di noi sono tanto sedotti da un «libro risorto». Perché ci piace sottometterci all’illusione che in un libro o in una biblioteca sia trattenuta, come per contatto prolungato, l’identità di chi l’ha posseduto. Alla faccia del capitalismo digitale che dai nostri dati ricostruisce un target pubblicitario, nei libri che abbiamo posseduto sogniamo che ci sia una parte di noi, più gentile, più silenziosa, magari dimenticata, sconfitta ma, forse, felice».

Forse non tutti sanno che, per un certo periodo della sua giovinezza, Benjamin si guadagnò da vivere vendendo libri usati; né tutti sanno che ogni volta che dico Vado a fare due passi in realtà sto dicendo che vado alle bancarelle in via Po; né tutti sanno che la vita segreta di questo universo di seconda mano è una delle mie ossessioni. Ma, chissà, forse lo sapeva Dario Rossi quando mi disse di leggere il libro di Giovanni Spadaccini, Compro libri, anche in grandi quantità (UTET libri). Ne scrivo su Domani, ma più che altro è un’occasione per parlare di bancarelle, remainders, Benjamin, Del Giudice, Bazlen, fantasmi e fughe, libri e dolori.

Di lacrime e imperduto

«Ogni giorno, da più di un anno, è come se in Italia precipitasse un aereo, un 747 carico di passeggeri. Certi giorni, in certi periodi, ne sono caduti due, a volte tre. Sono i morti da Covid-19 il cui numero apprendiamo quotidianamente dai bollettini della Protezione civile. Com’è possibile – ce lo si è chiesto più volte anche su questo giornale – che ci siamo abituati a tutto questo? Abbiamo trasformato delle vite umane in numeri, i numeri in contabilità, la contabilità in abitudine. Quale scambio abbiamo accettato per silenziare lo scandalo, la rabbia, il dolore che questo strazio genera in noi se ci fermiamo a riflettere, pur di proseguire più o meno con le nostre vite? Di certo è uno scambio che genera un resto, un residuo: per quanto proviamo a rimuoverlo, per quanto il discorso pubblico, la politica, ma anche le quotidiane, salutari incombenze, ci spingano a rimuoverlo, questo residuo permane. Come una vibrazione di fondo, un rumore bianco appena percepibile ma costante. Un residuo di cui ci accorgiamo come quando in città un improvviso silenzio lascia emergere il suono della sirena di un’ambulanza. È questo rumore di fondo che ci sta sbriciolando, che ci sfianca e fiacca, come le mura di Gerico distrutte dalle trombe di Giousè. Un lutto collettivo non elaborato, che si unisce alla stanchezza di tenere insieme casa e lavoro, o all’ansia di chi il lavoro non ce l’ha più o di chi ce l’ha ma esposto al rischio, alla stanchezza di vite trasferite online, alla frustrazione di domande che rimangono senza risposta: quando mi vaccinerò? Quando tornerò a scuola? Quanto durerà? Non ci sono soluzioni facili, o almeno io non ne ho. Però ci sono due libri – non a caso di due poetesse – che mi hanno aiutato a mettere a fuoco questo sentimento, e facendo ciò portato un po’ di sollievo». Continua su «Domani».

Qui scrivo di lacrime e tristezza, di pandemia e di due libri molto belli ma non certo facili, come Economia dell’imperduto di Anne Carson (Utopia Editore) e Il libro delle lacrime di Heather Christle (il Saggiatore) – due poetesse.

Nel pomeriggio se n’è parlato a Fahrenheit con Laura Pugno e Matteo Meschiari: la puntata si può riascoltare online.

Il nostro bisogno di cyberpunk

Dario De Marco ha fatto questa intervista doppia a Bruce Sterling e me su «Singola». Che poi, m’avessero detto vent’anni fa Guarda che ti fanno due domande insieme a Sterling io avrei detto Tu sei fuori amico (immagino se l’avessero detto a Sterling: si sarebbe sparato?). E quindi: grande gioia. E grande grazie a Dario, perché le sue domande mi hanno fatto mettere a fuoco un paio di cose ancora.

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Cyberpunk: Antologia assoluta

Il presidente americano bannato dai social network da cui aizzava la sedizione contro lo Stato, CEO della Silicon Valley che tolgono le infrastrutture a un social alternativo su cui l’estrema destra voleva andare a organizzarsi, hacker che entrano in questo social, Parler, e estraggono dati sensibili, chat, nomi degli utenti, un archivio enorme e probabilmente esplosivo quasi quanto fu Wikileaks.
Ora. Non ditemi che non viviamo in un mondo compiutamente cyberpunk.
Possiamo negarlo – e relegare la letteratura cyberpunk in una parentesi degli anni ottanta – per non vedere che siamo in una distopia neoliberista, ma, insomma, quante cose ancora possiamo continuare a negare?

Io non nego, per dire, che è con immenso piacere che ho scritto la postfazione a questo volume di @oscarvault.
Cyberpunk: Antologia assoluta raccoglie i capolavori della letteratura cyberpunk: Neuromante di William Gibson, La matrice spezzata di Bruce Sterling, Snow Crash di Neal Stephenson (da tempo irreperibile in italiano) e, in una nuova traduzione, Mirrorshades, l’antologia manifesto (anche questa fuori commercio da un po’) con nomi come Pat Cadigan, Rudy Rucker, Shiner, Shirley e altri (tra cui racconti fondamentali come Il continuum di Gernsback di Gibson e Stella rossa, orbita d’inverno dello stesso Gibson e Sterling).
A impreziosire il tutto una generosissima introduzione di Bruce Sterling, scritta per l’occasione.
Essere il tremante ospite di una tale compagnia è un onore.

La mia postfazione è stata anticipata sulle pagine di «Domani» ed è leggibile online su «doppiozero». È stata anche letta a Pagina 3 su Radio Rai 3 da Nicola Lagioia.

L’arte di leggere

Su «Domani» in edicola parlo del mio recente trasloco, di libri nelle casse e di due volumi usciti da poco (erano da tempo fuori dalla circolazione), il James Wood di Come funzionano i romanzi (minimum fax) e le Lezioni di letteratura russa (Adelphi Edizioni)di Nabokov, di critica e di quello che dei libri ne facciamo, di allargare i canoni, libertà e conflitto. In edicola e nei link nei commenti.

Finisce così: «Maestro supremo di quest’arte della concentrazione fu Vladimir Nabokov di cui Adelphi ripubblica ora Lezioni di letteratura russa, da tempo introvabili. Si tratta di una serie di lezioni su quel miracolo che fu la produzione letteraria russa: un’esplosione improvvisa che in poco più di un secolo, tra la prima metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, seppe accumulare una tale quantità di capolavori da farla affiancare, nella produzione narrativa, a letterature ben più estese nel tempo come quella francese o inglese. Nabokov inizia così: «È difficile astenersi dal sollievo dell’ironia, dal lusso del disprezzo, quando si considera il disastro che mani, obbedienti tentacoli guidati dall’enfio polipo dello Stato, sono riuscite a fare di quella ardente, fantasiosa, libera è la letteratura. (…) Accanto al diritto di creare, il diritto di criticare è il dono più ricco che la libertà di pensiero e di parola possano offrire. (…) Che esista un paese in cui per quasi un quarto di secolo la letteratura è stata costretta a illustrare la pubblicità di una ditta di mercanti di schiavi è difficilmente credibile per gente convinta che scrivere e leggere libri sia sinonimo di avere opinioni personali e dar loro voce». Come si vede Lezioni non sono meravigliose solo per l’acutezza dello sguardo che Nabokov posa su Puškin, Tolstoj, Gogol’ e compagnia, ma anche per la bellezza della prosa con cui lo fa: per la voce sferzante, vibrante e appassionata in cui si fondono etica e forma.«Guardate il quadro non la cornice» scrive Nabokov a un certo punto. Che sintesi perfetta! Leggete i testi, non le interpretazioni dei testi che il potere dello Stato o il moralismo «della critica antigovernativa e utilitaristica di orientamento sociale, i pensatori politici, civili, i radicali del tempo» vi vogliono imporre. Che gli vuoi dire a uno così?Niente. Ma a quelli che usano Nabokov oggi per silenziare qualsiasi discorso sulla cornice, ovvero sugli effetti che i testi hanno nel mondo, qualcosa da dire c’è. Nabokov fu uno scrittore di intelligenza sopraffina, in esilio dal suo paese (e dalla sua lingua) in mano a uno Stato totalitario violento e ottuso, l’Unione sovietica: aveva tutte le ragioni per scagliare contro quel potere violento e ottuso la dirompente bellezza della forma. Ma quello spazio di libertà che la letteratura dischiude va sempre conquistato (e questo Nabokov, che della negazione della libertà ne ha patito le conseguenze, lo sapeva bene), allargato, spostato, reinventato. Soprattutto per quelli il cui accesso a tale libertà non è un privilegio dato per scontato. Inutile allora offendersi, sentirsi derubati di qualcosa e zittirli a colpi di Nabokov facendo finta che la letteratura sia qualcosa al di fuori della storia, di puro e intoccato. Meglio mettersi in ascolto delle ragioni altrui – non muore nessuno – e ricordarsi di Kafka quando diceva: ”Nella guerra tra te e il mondo, scegli il mondo”.»

Continua su «Domani».

L’importanza di non capire tutto

«L’importanza di non capire tutto» diceva Grace Paley. C’è un legame, un nodo segreto che lega narrazione e esperienza, comprensione e interpretazione, overflow informativo e silenzio, ignoranza e fascino. Lo storytelling del disastro e il nostro ammutolire davanti alla scienza. Credo che sia lì, sul territorio che tiene insieme tutto questo, che vada a premere un libro come quello di Labatut e la sua fortuna. Ne scrivo su «Domani», dalla “nube della non-conoscenza” alla nuova era oscura, da DeLillo a Benjamin e il suo Narratore.

Inizia così.
«Intorno a un fuoco si raccoglie un gruppo di esseri umani. Uno di loro inizia a parlare: racconta una storia. È la scena primaria dell’animale umano, quella che celebra la capacità – unica, almeno a questi livelli – di descrivere con il linguaggio qualcosa che non è presente o che addirittura non si è mai visto. Eppure «l’arte di narrare si avvia al tramonto», scriveva nel 1936 Walter Benjamin, «è come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze». Quando scrive Il narratore, Benjamin ha ancora davanti agli occhi gli anni del primo dopoguerra, gli anni Venti di Weimar e della grande depressione: «dopo la fine della guerra, la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile. (…) Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell’uomo».

Suonano come lamenti di un’epoca lontanissima: di primo acchito ci sembrerebbe che tutti, oggi, non facciano altro che narrare, che il dominio dello storytelling si estenda su ogni territorio della vita, dalla politica (uno degli argomenti delle settimane precedenti non era il “metodo Casalino” applicato per infiocchettare le decisioni e le non-decisioni del governo Conte?) alla pubblicità, dalle serie televisive alla gestione delle emergenze stesse. Sull’impero dello storytelling non tramonta mai il sole. Ma è un sole che non scalda: è una tecnica efficace quando ci serve per rendere più aerodinamiche le idee, farle circolare meglio e più velocemente; ma lo è molto meno quando gli chiediamo di dare un senso all’esperienza. E alla fine ci troviamo in una situazione molto più simile a quella evocata da Benjamin di quanto pensassimo all’inizio: di fronte a un’esperienza enorme, che ci ha coinvolto tutti, come quella della pandemia, siamo ammutoliti come dei reduci sotto shock. Un evento enorme, invisibile eppure tangibile, individuale e collettivo che però non sappiamo ancora davvero vedere, né nominare. Che al massimo riusciamo a aggredire inutilmente con una sassaiola di chiacchiere e tweet.

Se la narrazione è «la capacità di scambiare esperienze» con altri individui, oggi sono diventati problematici entrambi i poli della questione: sia lo scambio che l’esperienza. La tempesta informativa in cui siamo immersi è una tale massa incombente di dati, informazioni, fonti da provocare un vero e proprio accecamento: il cloud come una versione iper-attuale della “nube della non-conoscenza” dell’anonimo mistico cristiano del XIV secolo. Incapaci di stare al passo con l’innovazione tecnologica troppo veloce per i limiti biologici, non possiamo che inciampare e l’eccesso di informazione, come ha mostrato DeLillo nel suo ultimo libro (Il silenzio), si ribalta nel suo opposto, nel silenzio appunto. Gli schermi costantemente accesi sono impenetrabili tanto quanto gli schermi neri dei device spenti».
Continua su «Domani».

Apocalissi in slow motion

Su «Domani» scrivo del nuovo libro di Mark O’Connell, Appunti da un’apocalisse.

Finisce così: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» è una frase molto citata anche se non è facile stabilirne il vero autore: c’è chi dice di Mark Fisher, altri Slavoj Žižek, alcuni la fanno risalire al critico Frederic Jameson. Il fatto è che è molto citato perché, lo vediamo, è molto vera: tutti i “fanatici dell’Apocalisse” incontrati da O’Connell sono ricchi, il più delle volte straordinariamente ricchi, ricchi al punto di sognare di abbandonare questo pianeta al suo destino dopo che lo stesso sistema che li ha resi ricchi l’ha condannato, il pianeta, al collasso. Lasciando tutti gli altri a bollire nel riscaldamento climatico o morire di qualche altra morte. In uno dei suoi viaggi, O’Connell incontra una società che affitta bunker di lusso: per pubblicizzarli, la ditta mostra dei filmati del caos prossimo venturo in cui «la popolazione percepita come selvaggia era marcatamente non bianca, enfaticamente urbana». E soprattutto erano filmati Baltimora nel 2015 e Londra nel 2011, dove rabbia e dolore dilagavano per la morte di un giovane nero sotto la custodia della polizia. «Le persone prese a modello di un mondo senza legge, quindi, erano proprio le persone che capivano in modo più intimo e urgente cosa significasse vivere senza la protezione dello stato, sapere che la legge non li avrebbe protetti». Ecco la scoperta più amara e preziosa che fa O’Connell: quella che io chiamo fine del mondo, è già la vita quotidiana della maggioranza della popolazione fatta di donne, minoranze etniche, poveri e classi subalterne, ogni giorno esposti all’incertezza, alla paura, all’angoscia per la propria sopravvivenza, senza protezione dalla violenza e dall’arbitrio di altri. Parlare di Apocalisse è un privilegio che nasconde questo sistema di sfruttamento. 

Leggi la versione completa sul sito del giornale.

L’11 febbraio ho avuto l’onore di presentare Mark al Circolo dei Lettori.