David Quammen, Senza respiro

«La natura umana è cambiata nel dicembre del 1910», scrisse una volta Virginia Woolf. Era un modo iperbolico, nella sua puntigliosa precisione, per indicare una trasformazione generale. Una mutazione.

Stava cambiando il mondo, la sensibilità, l’arte, la cultura, la scienza di inizio Novecento.
Quando invece è cambiato il nostro mondo? Quando è finito quello vecchio, quando inizierà quello nuovo? Quando saremo sollevati da questo disturbante interregno in cui le cose accadono così velocemente da lasciarci senza respiro?

L’interregno, lo sapeva bene Gramsci, è il tempo chiaroscuro in cui il vecchio non è ancora seppellito e il nuovo non è ancora rivelato: è il tempo dei mostri. Allora, quando è cambiato il nostro mondo? Se dovessi indicare una data potrebbe essere il 18 marzo 2020 quando, chiusi in casa per il lockdown, osservammo sgomenti la processione di camion militari che a Bergamo trasportavano le bare dei morti di Covid che i cimiteri locali non riuscivano più a contenere. O è il giorno, ognuno ha il suo, in cui il silenzio della città in quarantena è lacerato dal grido delle ambulanze, unici mezzi in circolazione, decine ogni ora.

O è al primo bollettino della protezione civile, o all’ennesimo in cui siamo abituati a un numero di morti pari a uno o due aerei passeggeri precipitati e schiantati al suolo ogni giorno.

No, credo che il modo più preciso per dire quando il nostro mondo è cambiato sia un giorno imprecisato tra ottobre e novembre 2019, quando in un wet market (un mercato dove si vendono anche animali selvatici vivi) di Wuhan un essere umano, mangiando la carne di un pangolino o più probabilmente venendo punto da una zecca saltata via da un cane procione, è entrato in contatto con un nuovo virus.

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Chi è Gordon Lish? «Ubiquo. Magro. Devoto. Veloce. Brillante. Estenuante. Pazzo. Editor (presso Knopf). Insegnante (di due classi da sei ore a settimana). Scrittore (con uno stile tra Joyce, Salinger e Jackie Mason [un comico americano]). Negli ultimi due anni ha anche fondato e diretto una rivista letteraria, The Quarterly. Il soprannome con cui è noto da anni è Captain Fiction. Ovviamente se l’è dato lui, questo soprannome». È la risposta – in terza persona – che ha dato lui stesso in un’intervista a Esquire negli anni Ottanta. In effetti, nella sua arzigogolata artificiosità, è la risposta più corretta alla domanda “chi è Gordon Lish”: si ha sempre la sensazione di guardare un orologio senza quadrante, in cui gli ingranaggi sono in bella vista e girano così velocemente che formarsi un’immagine (una verità) stabile, non destinata a sciogliersi e contraddirsi nell’immagine (nella verità) successiva, è quasi impossibile. È la stessa sensazione che proverete leggendo i suoi racconti: quella di gettare lo sguardo in una stanza piena di specchi. In un lampo riconoscerete il loro autore, in un riflesso improvviso vi si parerà uno sconosciuto, in una scheggia ritroverete voi stessi in una luce diversa. Questo anche grazie al rivolgersi direttamente al lettore, quasi un guardarlo negli occhi: «Voglio raccontarvi della rovina di un uomo», «Ascoltate, a me la poesia interessa né più né meno che a voi». Ma mai per lusingarlo o compiacerlo, anzi. Colpisce, leggendo i suoi racconti, come un uomo che ha passato buona parte della vita dentro l’industria editoriale sia tanto indifferente a compiacere il lettore. O forse no, forse proprio perché è anche un uomo di editoria, Lish come scrittore è tanto interessato a mostrare i meccanismi della narrazione. Prendete Salinger, toglietegli la pelle, e poi ancora fino a scarnificarlo, fino a ottenere solo ossa e tendini: ecco che avrete i racconti di Gordon Lish.

Onore al merito ai ragazzi di Racconti edizioni che hanno deciso di pubblicare un volume con la narrativa breve di Gordon Lish, così da far conoscere anche la produzione creativa di un autore in Italia spesso ridotto a personaggio, a quel personaggio di editor geniale e ingombrante, fondamentale e controverso, che senz’altro è stato ma a cui non si può ridurre.

È stato quindi con grande piacere che ho accettato l’invito di scriverne l’introduzione.

«Scopare e scrivere. Sesso e letteratura. Essere visti e ricevere approvazione. Fiducia e potere. O, detta in maniera un po’ più generale: desiderio e riconoscimento. Ecco, questa è una storia di desiderio e riconoscimento».

Nel segreto dell’urna Moravia non ti vede, Goku di Dragonball sì

Affinità e divergenze tra il mercato editoriale e le elezioni politiche. Qualche mattina fa, al risveglio da sonni inquieti (probabilmente causati dal prosecco scadente di una presentazione la sera prima o dal bombardamento autoinflitto di tweet per prendere sonno) sono caduto qualche minuto vittima di un’allucinazione psichedelica. Sono stati i minuti più lunghi della mia vita.

Di colpo non riuscivo più a distinguere il mercato editoriale, i suoi tic, le sue scorciatoie, i suoi rituali e il “mercato” politico. Mi si sovrapponevano in una folle galleria editori e partiti, scrittori e segretari, capitani e capitoli. Grande è la confusione sotto il cielo. Ecco allora una serie di consigli non richiesti per applicare strategie commerciali alle elezioni politiche. E viceversa.

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Le farmacie del cuore

Editoriale uscito su «Repubblica», Torino.

«Quando hai chiesto dov’era la farmacia del cuore abbiamo pensato che eri pazzo». È una battuta di Suttree, uno dei romanzi capolavoro di Cormac McCarthy, che mi è sempre rimasta in testa. Perché ogni volta che ci sentiamo spersi, abbattuti o in preda ad astratti furori, tutti torniamo alla nostra personale farmacia del cuore. Ognuno ha la sua, un luogo segreto e imprevedibile in cui curarsi le ferite dell’anima, in cui trovare un antidoto alla malinconia.

La mia farmacia del cuore sono le bancarelle di via Po. I bouquiniste sotto i portici tra piazza Castello e piazza Vittorio sono stati per me la meta di un pellegrinaggio quasi quotidiano: fermarsi a controllare gli scaffali, spulciare tra le coste allineate dei volumi alla ricerca dei nuovi arrivi, schivare il flusso di passanti, ancora oggi sono i passaggi obbligati di un rito ristoratore.

Il punto è che non sono certo l’unico ad aver eletto le bancarelle a luogo dell’anima: generazioni di studenti e professori all’uscita dalle lezioni a Palazzo Nuovo, bibliofili, lettori forti o deboli, scrittori e ladri di libri (signori della corte, lo è stato anche Roberto Bolaño), intellettuali e giovani tristi hanno intrecciato le loro chiacchiere e i loro sguardi davanti alle bancarelle. Se non hai spinto la bicicletta a mano camminando accanto a una o uno che ti piaceva mentre passavi davanti alle bancarelle di libri, be’ allora non sei stato giovane a Torino.

Spiace allora sentire che «le bancarelle non sono qualificanti» come ha detto Maria Luisa Coppa, presidente Ascom Confcommercio, parlando dei problemi che stanno attraversando via Po e le altre vie del commercio. Se c’è una cosa qualificante, invece, sono proprio loro!

Bisogna farle patrimonio dell’Unesco, proteggerle (ad esempio andando loro incontro sui costi di mantenimento: dalle tasse per il suolo alle bollette) e valorizzarle ben più di quanto si faccia ora. Le bancarelle sono identitarie, partecipano cioè all’identità della via, molto di più dell’ennesimo negozio in franchising. Non solo: al pari delle librerie di novità e delle edicole (quante hanno chiuso negli ultimi anni, sia delle une che delle altre?) o del vicino Circolo dei lettori, sono nodi del tessuto culturale della città, partecipano alla sua vivacità e dinamismo. Ma soprattutto sono anche un luogo accogliente, generoso: senza porte o selezione all’ingresso, con il sole o il brutto tempo, accoglieranno sempre un viaggiatore stanco in cerca di conforto interiore. Le bancarelle di via Po sono la farmacia del cuore di Torino.

Raccontando i traumi del Novecento, Sebald ci prepara al presente

«Nato nel 1944 nell’Allgäu, impiegai non poco tempo per rendermi conto di quale distruzione presiedette all’inizio della mia vita e per comprenderne il significato». Bastano queste poche righe per racchiudere il più importante scrittore del XXI secolo? No, certo che no: eppure in quello che sembra un minimale resumé autobiografico all’inizio di una presentazione davanti al Collegio dell’Accademia tedesca per la lingua e la poesia – e ora raccolto nel volume Tessiture di sogno appena pubblicato da Adelphi – c’è nascosto, avvolto tra le pieghe del non detto e la scelte delle parole, tanto di W. G. Sebald.

Come nei suoi splendidi libri pieni di deviazioni e digressioni, di subordinate avvolgenti come il fumo che si solleva dalle ceneri di un fuoco ormai spento, bisogna percorrere questi sentieri, questi malinconici “anelli di Saturno”, e scoprirne i segreti. 

Intanto iniziamo, per così dire, dalla fine: l’ho definito il più importante scrittore del XXI secolo, nonostante questo secolo non l’abbia praticamente vissuto: è morto in un incidente d’auto il 14 dicembre 2001. Inoltre, nonostante si sia sempre pensato come scrittore, Sebald ha esordito solo nel 1988, a quarantaquattro anni, con il poemetto Secondo natura e soprattutto nel 1990 con Vertigini, la prima delle sue “prose”, così definiva questi indefinibili libri a metà tra romanzo, autofiction, diario, saggio, racconto di viaggio e di natura, raccolte fotografiche (pubblicati, come tutti gli altri, da Adelphi nella splendida versione di Ada Vigliani, insostituibile “voce” italiana di Sebald).

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Alla ricerca dell’essenza del Giappone tra i capelli di una geisha

  • Il barone Kuki Shūzō fu un filosofo, poeta, erudito, dandy che girò l’Europa tra le due Guerre e conobbe tutti i grandi filosofi e scrittori dell’epoca, da Sartre a Heidegger, lasciando su di loro un’impronta indelebile.
  • Dedicò un affascinante piccolo libro alla definizione dell’iki, quel misto di seduzione e rinuncia che definisce, a suo dire, l’essenza giapponese.
  • Ma il Giappone si può conoscere anche percorrendo il pellegrinaggio dei trentatré templi come fece il grande scrittore olandese Cees Nooteboom.

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Il professor Eco ci consiglia quale programma del computer comprare

Ho ritrovato questa chicca deliziosa: un librino dell’86 in cui Umberto Eco consigliava quale programma di scrittura usare. A metà tra recensione, manuale, guida all’acquisto. Un Eco über nerd che scrive di quanti “tocchi” devi fare per salvare un file, l’usabilità dei menù, quanti dischetti servano per salvare un testo e come. Una finestra sugli albori dell’informatica personale, e sulla distanza da come oggi ci rapportiamo alla tecnologia.

Anche Primo Levi fu ammaliato dai primi personal computer: lui però dal Macintosh. Ci scrisse sopra un racconto (per La Stampa) in cui lo chiamava “Personal Golem”. Lo usò anche per disegnare: la copertina de L’altrui mestiere, quello splendido gufo, l’ha disegnato lui col mac. Al di là delle curiosità e dell’interesse per i retromaniaci (come me), colpisce la passione, la curiosità aperta e operosa di questi scrittori verso la tecnologia – cioè la tecnica, il nostro rapporto con le cose, il mondo, l’articolazione tra le idee e i loro prodotti.

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