La vita segreta

La vita segreta

«C’è un altro mondo, ma è in questo»: basta l’esergo di Paul Éluard all’inizio della Vita segreta per capire che quello di Andrew O’Hagan è un libro decisivo per raccontare l’identità, il segreto, il potere di quest’epoca attraverso il prisma di internet e del web.
Dal punto di vista letterario, poi, la narrative non-fiction di O’Hagan attraversa in pieno il territorio in cui più di tutti ho lavorato in questi anni: lo spazio tra racconto di finzione e racconto della realtà.
Poi dentro ci sono Assange, Satoshi Nakamoto, il dark web, i «dilettanti assonnati» (i grandi protagonisti di quest’epoca, vedrete), insomma il presente.
È quindi con enorme piacere che ho risposto all’invito di presentare O’Hagan a Torino alle OGR, il 28 novembre 2018 all’interno del ciclo dei Giorni selvaggi del Salone Internazionale del Libro con Circolo dei lettoriScuola HoldenCOLTI – Consorzio Librerie Torinesi Indipendenti.

Il libro inizia così. «Quando scrivi un romanzo, prendi dal mondo ciò che ti serve, restituisci ciò che puoi, e dai per scontato che l’immaginazione sia sovrana. Ma cosa succede quando scrivi di cronaca? Non sono allora i fatti a dettare la storia, sottraendola all’immaginazione? La tesi di questo libro è che tale distinzione non regga, specialmente nel mondo di oggi. Quando racconto una storia vera, non mi sembra tanto di riferire delle notizie quanto piuttosto di indagare la realtà, un’attività alla quale le tecniche del romanzo, lungi dall’essere estranee, sono spesso adeguate. Le persone di cui scrivo tendono a vivere in una realtà che si sono costruite da sé, o che per certi versi è frutto di invenzione, e per rintracciarne la trama occorre addentrarsi nel loro etere e danzare con le loro ombre. Da giovane ho appreso dai libri dei poeti a diffi dare della realtà – «la realtà è un cliché da cui fuggiamo con la metafora» scrisse Wallace Stevens –, e i protagonisti di questo saggio, tutti personaggi reali perlomeno all’inizio della loro storia, devono la loro esistenza e il loro
potere nel mondo a un alto tasso di artificialità.
[…]
È un vezzo della nostra epoca sfruttare le assurdità insite in questa situazione e chiamarle cultura».

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