La fine della conversazione

La fine della conversazione

«E poi, di che parliamo?» cantava il sublime Lucio Battisti del periodo panelliano. Non facciamo che parlare, scrivere, comunicare, interagire, eppure poche cose oggi mi sembrano più minacciate, quando non proprio estinte, della conversazione. C’è quella che chiamano “la regola del tre”: se in una tavola di sei persone almeno tre non stanno tenendo viva la conversazione, non si può sbirciare il proprio smartphone. Ma magari si parla di politica e allora finiscono tutti per litigare, che palle, così per sfuggire alla noia il cellulare lo usi per guardare Twitter e vedi che non c’è scambio che non sia un rimpallo di battute sagaci o vai su Facebook ed è lo stesso. Ricordo una vignetta in cui un segretario di partito dice «Possiamo parlare di tutto qui, tranne che di politica». E quindi, dimmi, di che parliamo io e te se non condividiamo nemmeno lo stesso tavolo, la stessa lingua, lo stesso Paese?

Una rivista americana ha definito Game of Thrones l’ultimo evento davvero condiviso della cultura pop. Il giorno dopo l’uscita di una nuova puntata su Hbo tutti la si era vista e il web si riempiva di articoli, status, opinioni, meme. Eravamo sincronizzati. Stavamo tutti guardando la stessa cosa e ne potevamo parlare insieme. In tempi di binge watching e streaming, quando ormai siamo abituati (evviva!) ad avere tutta una serie subito e poterla guardare quando vogliamo, non è così scontato che io e te si sia allineati su uno stesso titolo. Per questo Game of Thrones è il dinosauro di un’altra epoca. E così, alla fine, di che parliamo? Niente panico: se è diventato più difficile parlare della serie tv che stiamo vedendo in questo momento… ecco, sì, sopravviveremo lo stesso. È solo un esempio piccolo e futile di come stanno cambiando il modo in cui ci informiamo, intratteniamo, educhiamo e i luoghi in cui si forma l’opinione pubblica. Verifica dei poteri di Franco Fortini (l’ha da poco ripubblicato il Saggiatore) fu uno straordinario sopralluogo e collaudo di quei luoghi ad altezza anni Sessanta: quello che manca è uno sguardo altrettanto tagliente puntato sull’oggi. Il digitale ha fatto proliferare a livello frattale i canali attraverso cui decidiamo di informarci (o possiamo informarci: il privilegio della scelta non è accessibile a tutti e questo è un tema politico che si continua a non vedere), una cosa eccitante come scatenare un tossico nel covo di Scarface. C’è qualcosa di enormemente liberatorio nel poter selezionare le fonti che davvero ci interessano, poter leggere riviste di tutto il mondo, essere aggiornati in tempo reale direttamente da chi ci può essere utile sul serio: era questo il messaggio con cui ci vendevano internet a metà degli anni Novanta; la promessa che la Rete ci avrebbe emancipato dalla cultura di massa, che ci avrebbe reso finalmente individui, singoli, irriducibili l’uno all’altro. Quindi più liberi, dicevano. E invece abbiamo cambiato la cultura di massa con cultura di massa personalizzata, come tutti, solo che è la nostra e allora ci fa sentire élite.

La realtà è che

«siamo diventati schiavi del web molto prima di capire in che misura la tecnologia avrebbe cambiato le nostre vite»

scrive Andrew O’Hagan ne La vita segreta, il libro che raccoglie tre suoi saggi narrativi sulla Rete e le figure che popolano questo “innominabile attuale”, per dirla con Roberto Calasso. Abbiamo affidato a internet e alle sue logiche gli spazi della discussione pubblica e oggi ci ritroviamo con

«segreti militari su scala globale che vengono rivelati da una combriccola di dilettanti assonnati a due passi da una cucina Aga».

Continua su «IL» del «Sole 24 Ore».

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