In difesa del romanzo globale

In difesa del romanzo globale

C’è una strana forma di protezionismo che di questi tempi sta prendendo piede nel dibattito intellettuale. È come se si sentisse di nuovo bisogno di confini e frontiere chiuse: non solo alle merci e alle persone, come invocato da nazionalisti e populisti di ogni ordine, grado e blog, ma anche alle idee e alle storie: insomma, ai romanzi. Un fastidio che certo non è ancora stato convertito in divieto (e difficilmente lo sarà, suvvia), ma che comunque denota una tendenza, un clima, sufficientemente preoccupante da spingere a scrivere una difesa del romanzo globale. Ma difenderlo lascia intendere che da qualche parte ci sia qualcuno che lo sta attaccando. Com’è possibile? La letteratura non è esattamente quella cosa che permette agli uomini di superare le barriere fisiche, politiche, linguistiche che la storia ha posto? Non è forse il romanzo quel genere che più di tutti mi permette di (e perdonate la frase fatta) “entrare nella testa dell’altro”? In fondo se il manifesto del Salone del libro di Torino, disegnato da Gipi, è un grosso libro aperto sopra un muro di filo spinato così da poter scrutare dall’altra parte, qualcosa vorrà dire, no? Un attimo, le cose sono più complicate di così. Innanzitutto il romanzo non è sempre stato sinonimo di apertura e universalismo: anzi, che la letteratura potesse essere il patrimonio di una comunità più grande di quella nazionale è un’idea piuttosto recente, sviluppatasi all’ombra della grande guerra civile europea tra il 1914 e il 1945, quando lo storicismo ottocentesco, che aveva legato la tradizione letteraria alle identità degli Stati nazionali, è entrato definitivamente in crisi. E, come tutte le conquiste, può sempre essere messo in discussione.

Continua su «IL» del «Sole 24 Ore».

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