Dai batteri a Di Maio

Dai batteri a Di Maio

Su «Rivista Studio» cartaceo, un essay sul rapporto tra libri e tempi oscuri, tra scienza, libri di scienza, la bellezza e l’intensità a cui danno accesso, e l’ottusa resistenza del quotidiano, soprattutto quando prende la forma della chiacchiera vuota, della nebbia populista. C’è, in questo contrasto, forse, una piccola forma di resistenza, di ginnastica mentale e estetica, almeno. 

Inizia così: «I mesi successivi alle elezioni politiche dello scorso marzo li ho passati ostaggio di Twitter. E di siti di news, di giornali, di maratonementana, di qualsiasi cosa, insomma, potesse placare la fame chimica di notizie sulla formazione del nuovo governo, o di un suo repentino disfacimento. Come un tossico sapevo bene che in realtà, invece di sfamarlo, non facevo altro che nutrire l’animale che c’era in me in quel momento, un gomitolo unghiato di sgomento e rabbia, paura e senso di colpa, impotenza e panico che mi lacerava. L’acqua è arrivata ai miei piedi, pensavo i giorni dell’insediamento del governo, la casa è allagata e, come con un rubinetto dimenticato aperto in bagno, per troppo tempo avevo ignorato i segnali del disastro in arrivo (il disagio, le diseguaglianze, le periferie, Brexit, Trump o che so io). Il momento dopo, però, pensavo che era proprio questo modo di vedersi assediati da un disastro imminente una delle cause di tale situazione. «Io sono solo, voi siete tutti,» dice l’uomo del sottosuolo, uno dei più scombicchierati personaggi di Dostoevskij: i suoi deliri paranoici, il sentirsi circondato da una massa ostile e sconosciuta da respingere con rabbia, ne fanno il vero eroe dei nostri tempi. E lui non aveva nemmeno Twitter».

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